Lo Stetoscopio di John Lennon


Ci mancava proprio solo il passero. Spettacolare creatura tonda, svelta, perfetta ... e morta.

Succede ogni primavera. Qualche passero dall’animo romantico pensa ad altro e si va a schiantare contro la finestra sul giardino.
Lo ritroviamo al suolo, a pancia in su e zampe all’aria, e di solito, colui che ha pulito i vetri per ultimo, rendendoli così brillanti da riflettere perfettamente il cielo e da ingannare il morituro, quel giorno si sentirà terribilmente in colpa.
Il malcapitato lavavetri di famiglia in queste grandi pulizie epidemiche, sono io.

È stato Oli a rinvenire il corpo commovente del pennuto, e adesso siamo qui, accosciati come calciatori nella foto di squadra, stretti attorno al passerotto, a chiederci che fare.

Non ci facciamo esattamente la stessa domanda, però: per me la questione è teleologica. Non mi sembra proprio epoca per cercare di negare che il passero è morto; ma so anche che non devo bruciarmi l’occasione di spiegare a mio figlio perché moriamo, dove andiamo, cosa diventiamo. Tasto il terreno: “Come ti senti, Oli? Sei triste?”. So che ho qualche secondo per trovare le risposte che globalmente stiamo cercando da duemilaseicento anni, e renderle consone a un interlocutore di quattro. Per mio figlio invece, la questione primordiale è “Lo posso toccare?”. 

Adesso, io, la risposta alla domanda di duemilaseicento anni modestamente non ce l’ho. Ma non per questo lascerò che nel suo cuore si imprima il tabù della morte. Forse per egoismo: carezza al passero oggi, vecchia madre fuori dalla casa di riposo domani. E dunque gliel’abbiamo accarezzata, la pancia arruffata. Le piume erano calde. 

“Sembra quasi che dorma e basta, dopo una bella scorpacciata di vermi”
“Guarda che secondo me respira”, “il polso c’è ancora”,”è solo una commozione cerebrale”.
Ecco, sì, un mancamento. Lo avremmo raccolto e curato, e rimesso in salute. Ce ne saremmo occupati e lui, ristabilito, al momento degli addii, ci avrebbe lanciato un cinguettio grato, e un cipiglio incazzato verso quell’umana lì, la lavavetri, che lo aveva salvato ma anche mezzo ammazzato.
“Guardate che è morto” decreta Tre, che non è in vena.
“E allora dov’è, la ferita?” ribatte il ragazzino sospettoso.
“È dentro” farfuglio. “Ma poi, secondo voi, come rinascerà?”.
“Albero”. Oli se ne intende. Il Big Bang, la deriva dei continenti, l’era glaciale: li ha fatti lui. 

Io non sono più una bambina, ho perso lo schiocco di dita da Creatore. Ma ci provo lo stesso, nel mio piccolo, propongo terra, sali minerali, fiori, ma posso fare di più, mi butto, diventerà cielo, diventerà rosaio. Diventerà noi. “Ma è MORTO!” sbotta Tre, come se volesse sbatacchiarci le spalle a tutti e due. “Se ci tenete, dopo lo seppelliamo in giardino”.
Un raggio di sole arriva propizio proprio su di noi. Gli diamo un’ora di tempo, al passeraceo, per risorgere, e ce ne andiamo a mangiare. 

Dopo la pausa pranzo, o di risurrezione, il passero è ancora lì stecchito. Solo le piume ondulano nel vento a ritmo con la betulla. Tre non parla, io non parlo: in questo grande silenzio dei grandi, Oli sussurra come un gigante: “Un attimo che prima controllo il battito. Per sicurezza”.  








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