Il Covio


Ormai siamo amici. Fa ancora strano. Qualche giorno fa mi dicevo, se non se ne va penso che comincerò a chiamarlo alla parmigiana, familiarmente: il Còvio. 

Fanno cosi dalle mie parti, prendono sempre indistintamente le prime due sillabe del tuo cognome, sempre e solo il cognome, e ci spataffiano sopra “o” se sei uomo e “a” se sei donna. Il resto del cognome chissenefrega, tanto ormai siamo amici. Però sempre cognome, così in caso, ritornare al “chi ti conosce?” sarà più facile. È il Nord dopotutto. 

Quindi, il Còvio, mi sembra un soprannome perfetto per quello che sto avendo. Dopotutto è un mese e mezzo, anche se è pochissimo, in confronto all’Italia del Nord, che come virus mi è durato ben venticinque anni. 

Prima di farmi amico il Còvio, non capivo perché la gente col cancro, l’aids e altre gravissime boiate finiva spesso per “addomesticare l’animale”, per familiarizzare col nemico. Il nemico se lo devi battere, non lo puoi prendere fra le braccia, mi dicevo. 

Ma dev’essere una tappa precisa dell’accettare una cosa che sta pur sempre dentro al tuo corpo. Al virus fai abitudine, e alla fine anche ricorso. Un amico difficile da capire, ma che non ha tutti i torti, quando smette di farti su come uno gnocchetto e comincia a insegnarti qualcosa.
Perché devo dirlo, mantenendosi calmino, a fuoco lento, volando basso come sta facendo da qualche settimana, mi sta insegnando tanto. 

Varie banalità che purtroppo scorderò quasi all’istante nel momento in cui anche in Francia si potrà riversarsi di nuovo nei caffè e nei ristoranti. Ma che adesso ho molto, molto chiare in testa.
 Parlo della concretezza del dolore (ma non potevo accontentarmi di stare a sentire Johnny Cash? Cat Stevens?). 

Di come ti fa sentire il tempo che passa, che non fugge più, ma passa, lo senti che scalpiccia, e non lo perdi.
Del sapore della preghiera quando ci credi davvero, quando è sincera, impastata con la paura, non filastrocca né supplica, né rituale, né scaramanzia. Io che non avevo fede abbastanza nemmeno piegando il bucato (“finirà mai tutta questa stoffaglia arruffata che esce dal cesto?”).

E che sono definitivamente come chiunque altro. Che tutto, sempre, può succedere a tutti. Al limite un po’ più scema, di essermi creduta un po’ più furba, un po’ più fortunata, o più chissà che cosa.

Grazie, Covid Diciannove, di avermi fatto giungere a queste edificanti considerazioni andando a scarugare nei miei alveoli polmonari. Adesso, però, Còvio, quando riesci, stam’su da dos.

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