Come ho contratto il Covid


Ricapitoliamo. Starnuti che si ferma il mondo. Petto spianato come pastafrolla a colpi di mattarello. Dolore se respiro, c’è qualcuno che prende i miei polmoni per due belle orate e sta cercando di sfilettarle con una forchetta. Raffreddore di quelli grossi, eterni. Stanchezza epica. Confusione. E tanti altri sintomi strani,  che vanno e vengono come clienti bislacchi da un salone di tatuaggi. Per farla breve, ho preso il Covid. E passato i successivi 30 giorni a cercare di capire come sia successo. Non si resiste a restare all’oscuro di questa cosa. E’ insopportabile ignorare chi, quando, come, te lo ha attaccato. E’ un bisogno stupido, ma schifosamente umano. E infatti proprio su questo hanno giocato, creando la famosa App.

Chi è il mio virus? Come si chiama? Che lavoro fa? Qual è la sua storia?

Ipotesi “Strip Tease”
Il mio virus si chiama Aryana Gryps. Si trovava nel sudore che appannava il metallo della barra di Pole Dance, quel giorno che il mio binomio a lezione di pole aveva gli occhi a mandorla e io mi sono detta: “Due, non fare la paranoica. Sicuramente è nata qui, magari ha due parenti lontani in Asia, forse pure coreani, e i coreani la stanno gestendo alla grande l’emergenza sanitaria” e lí la prof di pole ha urlato proprio a lei: “Mei Lin, allontana la pancia, nella Butterfly!”. E io mi sono detta: “Due, non fare la razzista. Anche se è cinese, che cosa vorrebbe dire? Poverina, magari manco lo parla il cinese”. E lì le ho visto il collo, mentre l’assistevo nello Shoulder Mount, che a me invece neanche mi veniva, e trac, tatuaggione di ideogrammi sottili, minacciosi come zampe di tarantola. E io mi sono detta: “Va bene, Due, abbiamo capito. È cinese. E allora? Non si puo’ più nemmeno essere cinesi? Vuoi finire come tuo padre, che ancora adesso uno che è nero lo chiama “il negretto”, cercando di essere gentile, o come tua madre, che lo corregge con tono altezzoso: “Ma no, si dice di colore!”, o forse come tua nonna, che metteva fine all’incidente diplomatico con un bel: “Ma insomma, ma come cazzo bisogna chiamarli!”? Vuoi veramente vivere in un mondo dove non si puo’ più essere cinesi? Stai piuttosto attenta a restare sulla barra, che c’è Mei Lin pronta a recuperarti, a costo della vita, con tutta quella pelle esposta, per non farti cadere.

Ipotesi “Piccole Donne”
Il mio virus si chiama Louisa May Alcovid. E maledetto volontariato. Che cosa mi è venuto in mente di animare, il 12-fottuto-marzo, un atelier sull’allattamento alla Casa di Nascita naturale dove ho partorito i miei bambini? Non mi è bastato andare lì per partorire, e per la rieducazione del perineo, e per cazzeggiare con altre puerpere durante i primi mesi dopo il parto? Adesso devo pure trasmettere le mie conoscenze sul campo? Ti sentivi Beth, ammettilo a te stessa, Due, Beth, la sorella malaticcia e generosa che va ad assistere la famiglia dei vicini poverissimi, strapiena di bambini e, si è scoperto dopo, anche di scarlattina. La casa di nascite è proprio di fianco all’ospedale, si entra dallo stesso ingresso, si prende un ascensore e si fa un corridoio. E l’ospedale è il posto dove meno ti dovevi ritrovare al mondo, in questi giorni, Due. Ti sei portata anche i tuoi figli, ti sei detta gli farà bene vedere poppanti che poppano, donne incinte che mangiano, mamme che stressano, levatrici che levano. I tuoi figli sono bambini, portatori sani e contagiatori inarrestabili. Gli individui con cui meno ti devi far vedere in giro al mondo, in questi giorni, Due.

Ipotesi "Furba"
Il mio virus si chiama Nathan Sgamo. E se ne frega. È adolescente, o solo disgustosamente ottimista. Ha un temperamento inutilmente ardimentoso, fanfarone, che lo porta a simpatiche ma assurde prese di posizione. Le sue scelte di vita, così, sono tristemente riassumibili col noto adagio: il gioco non vale la candela. Adora (e abusa di) espressioni come “A me, quello che mi ............. (obbligo, imposizione o enunciato negativo a caso), deve ancora nascere”. A Nathan puoi spiegargli tutto, cercare di convincerlo di quello che vuoi, allarmarlo, multarlo, ma lui è uno ruspante, lui non cambierà. E se lo presenteranno, lui la mano la stringerà. Se incrocerà un’amica, la sua guancia la bacerà. Per la stessa ragione per cui non riabbottonerà mai quei quattro bottoni di camicia sulla sua gagliarda lanugine pettorale. Perché è un indomito del cazzo.

Ipotesi "Coniugale"
Ma perché devo essere proprio io ad aver introdotto il morbo nella perfetta famigliola, eh? Magari è stato Tre, scusate. Dopotutto è lui che incontra più gente, va al lavoro, fa tutto il giorno avanti e indietro sul raccordo anulare. Torna, si toglie il casco, mi bacia. Ha le labbra che sanno di cuoio e di moscerino spiaccicato. Il mio virus si chiama Lupe. E a Lupe non si comanda. Puoi farle fare tutti i test che vuoi, li fa, lasciarla ad aspettare a casa, dirle di non uscire, non metterà il naso fuori dalla porta. Puoi perfino vietarle di andare al cinema, per un bel po’. Ma quando torna l’uomo, e non lo baci, Lupe non ci sta. E attacca. E’ un ceppo simpatico, un po’ imprevedibile, probabilmente provoca inspiegabile conoscenza di tutti i passi della milonga porteña. Fra qualche giorno ve lo sapró dire. Ma soprattutto, la riconosci perché è l’unica che ti fa pensare: ne valeva la pena.

Ipotesi “Mediocre”
Il mio virus si chiama Mario Calestani. È il ceppo peggiore di tutti; è un bacillo qualunque. Uno a posto. Il sabato la spesa, il giorno dopo in chiesa. Va al lavoro in giacca e cravatta, prende la metro, non paga con la contactless perché non si fida. Mi è inciampato addosso sul sedile della metro, o quando ho strusciato contro il tornello per entrare, o dai tasti del bancomat. È l’ipotesi più dura da digerire. La contaminazione è più leggera se sai che è avvenuta sfuggendo a bordo di un vagoncino da miniera un sanguinario ministro della dea Kali in un tempio maledetto in India, o anche solo addentando un cosciotto di pangolino fritto in un sordido Kentucky Fried Pangol di provincia. Ma salendo su un autobus. Comprando un pacchetto di puffi Haribo. Prendendo dalla posta il giornalino degli sconti della Coop. O il modulo della dichiarazione dei redditi 2019. Pulendomi col rettangolino di carta igienica sbagliato al bistrot. Non c’è niente da fare. Almeno per il ceppo che ho preso io, non è il Covid che ti uccide davvero. È la mediocrità.


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