Sempre io, peró! (o il Complesso degli Auguri di Natale)
Isogushi fu il mio
Maestro. Per anni con lui nel dojo di Ishen temprai corpo e spirito in attesa
di questo momento.
Io c’ero quando il
Maestro diceva: “Preparatevi a vivere in un mondo pieno di prigioni invisibili.
Un mondo di false libertà, privo di cultura e di civiltà, un mondo di uomini senza
volto”. Io me lo segnavo. Mi preparavo. Imparai la pazienza del saggio, che per
veder crescere una quercia, ci si siede sotto e aspetta. La generosità, l’arma
principale del samurai moderno. Che il rifiuto del rischio è un crimine contro
la vita feconda.
C’ero anche ai
piedi dell’Himalaya, quando Ram Dass leggeva sulla lavagnetta del santo Neem
Karoli Baba, che “questa è l’armonia dell’universo: sapere che se fai una cosa
con desiderio, con rabbia, con brama, lussuria, paura, crei solo più karma, e
resti dentro il gioco, nella ruota di nascita e morte. Ma una volta che vedi
attraverso, sei eterno, hai finito di morire, non c’è paura della morte perché
non c’è morte. E’ solo una trasformazione, un’illusione”. Ero pronta per tutto
questo. Lo aspettavo.
Ció
nonostante, a me, il giorno che la Francia è entrata in confino e NESSUNO mi ha
scritto, mi ha roso un po’ il culo. “Perché sono sempre io che penso agli
altri?”. “Non mi pensano, gli altri?” “O mi pensano, ma non passano all’azione?”.
Io ho chiamato l’ex
che pure ai tempi mi cornificava in proporzioni industriali. E che chiamava i
miei la famiglia Addams – ma su quello concordavamo. Io ho chiamato i miei
amici, di oggi e di ieri, gli zii, i cugini, i compagni di classe; le colleghe
sparse. I ragazzi del club della corsa. Le prof del corso di pole dance. Io ho contattato
suor Franca, la mia maestra delle elementari, che è anche una suora... E poi
Isabella, la ragazza figa del liceo, ovvero non solo alle mie amiche, ho
scritto, ma pure a quelle che avrei sempre voluto fossero state mie amiche.
Sempre io ho
chiamato mia suocera, e meno male che non ha risposto. Io la tata dell’amichetto
di mio figlio. E il panettiere del mio vecchio quartiere, e mia zia testimone
di Geova, e mio zio del Bronx. Che in realtà è pure mio prozio. Io il gelataio
romagnolo dove mio figlio ha mangiato il primo gelato. E dove mia figlia non
potrà mangiarlo probabilmente mai. Io la mia prof di canto prenatale. Io l’ostetrica
dei miei parti.
Fra un accesso di
tosse e una spina al polmone, ho ripercorso in qualche modo la mia vita sociale
attraverso le persone che ho chiamato per sapere se stavano bene. Un campo di
battaglia. Il cavo di un allaccio telefonico non pagato. Tanta gente mi ha detto
in passato “ti ricordo sempre con piacere”. L’espressione mi piaceva. Ma adesso
non saprei. Che cosa devo fare, Maestro Isogushi? Dimmelo tu, Richie, Baba Ram
Dass! Ascolterei perfino un familiare Manson a caso, se sapesse la risposta. Se
non mi facesse tanta paura. Dopotutto sono già alla seconda stagione di Fargo.
Non posso pensare di uscire indenne da tutta questa violenza.
Comunque non
ricordatemi. Fate un salto. Mi ricorderete dopo, ma per ora sono sempre di
questo mondo, ho un numero di telefono, un indirizzo e-mail e un cuore spazioso
con cuscini e pouf e un tavolo di legno per il caffè, e c’è posto per tutti. Perfino
per te, suocera. Vi facciamo il caffè vietnamita. Mettiamo su lo strano
pentolino di stagno e ve lo facciamo trovare caldo. Io e Linh.
Chi è Linh? Linh
è una ragazza di Vinh Long, in mezzo al Delta del Mekong. Aveva sedici anni
quando abbiamo fatto insieme tre ore e trecento chilometri di taxi-camioncino.
Lei per tornare dai suoi, noi per bighellonare fra i canali e riempirci di Pho.
Sono passati dieci anni. Oltre a quelle tre ore non ci siamo più riviste. Peró Linh
mi ha scritto. Mi ha chiesto dell’Italia, della Francia, dei polmoni, degli
Addams. Anche sul Mekong pare che il confino spinga tutti a rimettersi in sesto
la casa. Mi ha dato appuntamento su Skype alla fine dei lavori. Ci mostrerà la
casa nuova. Conosceremo i suoi.
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