ABBIAMO PERSO NOI
Palletta in
questi giorni è impegnativa. Non dorme. Piange continuamente e per futilità.
Frigna, che è peggio. Emette a volontà certi squilletti acuti, che si sente
dallo strillo che ha cercato con cura la frequenza perfetta per mandarti il
cervello in fumo. E chiama, la notte, nel buio, la sua mamma, come una vera
attrice da Oscar, specializzata in ruoli di bambini psicopatici, o posseduti, o
in contatto con spiriti malevoli, che chiamano, di notte, la loro mamma.
Prolunga la “a” con
timbro cristallino, ripete a intervalli regolari, fino allo sfinimento, la nota
si staglia discordante nel quartiere deserto, e lacera col suo sonaglio
d’argento il sacro languore del confino notturno. Di giorno divento una furia
alla trecentesima invocazione così, ma di notte mi appropinquo in camera sua
titubante. Non ho il coraggio di arrabbiarmi. Meglio non contraddirla. Da un
momento all’altro potrebbe dirmi che “Lui è molto arrabbiato”. Giro la maniglia
della porta e la spingo con precauzione. Non è mia figlia che ha paura dei
mostri. Sono io.
Lui non c’è. O si
è già dissolto. C’è solo lei, seduta sul letto come una paffuta capasanta in
mezzo a una grossa conchiglia di lenzuola accartocciate. Nella luna teatrale vedo
le sue ciglia, che sbattono stranite, come se stesse cercando di stabilire se è
sveglia o sta dormendo. I boccoli le stanno un po’ appiccicati alle guance
ancora calde, e un po’ a sballonzolo nell’aria come piume panciute di passeri
biondi.
Di solito è qui
che mi dice qualcosa di assolutamente non demoniaco, anzi, tenerissimo, e io
cedo alla dolcezza e alla consunzione e mi sdraio accanto a lei. Dimenticando
che è così che procede, il Maligno.
La cosa
tenerissima puo’ andare da “Mamma vorrei un pochinino di cioccolato bianco” –
ora legale 4:27 – a “Mamma mi proteggi?”.
Ma ieri notte no.
Stavamo già
perfettamente imbricate nella nota posizione “a cucchiaio” ideata da Al Pacino
in Paura d’Amare, le tenevo la mano sul pancino e lei spingeva il braccio
indietro per accarezzarmi dolcemente con le dita come un micromare su una
microbattigia.
“Ti voglio bene”
le dico in un soffio. Da dietro vedo la sua guancia che sorride. Ma mi viene il
dubbio, perché io lo so che non le parlo in italiano abbastanza spesso... Avrà
capito?
“Palletta, tu lo
sai cosa vuol dire ti voglio bene?”
Momento di
riflessione.
“Ça va...?”
prova l’infante.
“No, piccolina.
Ti voglio bene vuol dire Je t’aime”.
Oh. Io lo so che
Palletta se c’è una cosa che detesta è non sapere le cose. La voglio consolare.
“Tu pensavi che
volesse dire “Stai bene?”
“Oui” confessa. “Allora
ho perso” aggiunge sconfitta.
Immondezze che le
dice il fratello...Ho vinto, hai perso...Mi viene in mente Baricco, e Tim Roth:
“Non sei fregato veramente finché hai una buona storia, e qualcuno a cui
raccontarla”. Allora mi avvicino alle sue orecchie mogie e le adatto questo.
“Tu lo sai
Palletta, che non hai mai perso, se impari qualcosa che non sai, e se c’è
qualcuno che te lo vuole spiegare?”. Non so se ha capito. Intanto io penso che
non ha perso lei. Abbiamo perso noi.
Commenti
Posta un commento
Grazie per il tuo commento!