Verso l'infeltrito...e oltre.


Sono sicura che è un altro dei sintomi sconosciuti del Covid. Ma insomma, all’inizio ero la prima ad essere sconvolta.
Io che prima di cominciare i compiti avevo sempre uno sguardo protettivo, da sorella maggiore, per la coltre di polvere sulla mensola dei libri, spessa e intatta come la neve di notte... Io che coltivavo spore nei piatti sporchi come Miyagi si occupa dei bonsai. Io che amavo e accettavo con umiltà e rispetto ogni singola macchia che la Provvidenza metteva sul cammino delle mie gonne. 

Adesso sto sempre a pulire. Organizzo, ci prendo la mano, agguanto flaconi specifici, snobbo i prodotti “senza risciacquo”. Non riesco a spiegarmelo, ma il sintomo l’ho riscontrato da un po’, e sembra persistere. Perfino io posso provare un certo gorgoglio d’orgoglio nel lustrare casa.

Sembra ieri, mia madre entrava a tradimento in camera mia e cadeva in ginocchio in mezzo al casino, rivolgendo accorate litanie a Santa Zita, protettrice delle donne di casa. Spesso la sentivo invocare la grazia di farmi trovare un marito ricco, che potesse procacciarmi una donna delle pulizie.

Ma il disordine era la mia famiglia, il mio rifugio, il mio universo. Decisi che se proprio dovevo, avrei sposato solo uno dei fratelli Collyer, e continuai per la mia strada lasciando dietro di me una scia di vestiti mezzo sporco e calzini riappaiati male. Ci fu un periodo complicato della mia vita in cui mi rivolsi a una professionista prezzolata, ma non mi sento pronta per parlarne. E comunque, adesso che le colf sono costrette al confino, è storia vecchia.

Chissà da dove nasce questa mia nuova passione per l’igiene. La vita di confino è una bolla. Non è la nostra vita vera, possiamo permetterci l’esotismo di essere altri – nel mio caso, la controfigura di Joy Mangano, l’inventrice del mocio vileda.

O forse non è tanto una vita alternativa, ma una vita in forse. Pur con tutto quello che le devo, non si puo’ stare in mezzo alla polvere negli ultimi barlumi della propria vita. E cosí ci siamo fatte un bicchiere in nome dei vecchi tempi e ci siamo lasciate da buone amiche. Il bicchiere l’ho lavato con l’Amuchina e la lana di ferro.

Certo, sulla fine di tutto cerco di non soffermarmici troppo. Non tanto per paura di morire, ma perché, se mi convinco troppo di star tirando gli ultimi, finiro’ per disinteressarmi dei lavori. Che si fottano, insomma, i cassetti del frigo. O il bordo interno delle prese elettriche. O il retro della tazza del cesso, quello che non si vede, un po’ il dietro le quinte del gabinetto, dove si strucca la cacca...

Ho scoperto che le pulizie sono un esercizio filosoficamente interessante. E andiamo oltre la questione pulisci fuori per pulire dentro, ramazza il cesso per purificar te stesso, ...C’è anche un girovagare della mente tutto particolare, un’errance ipnotica, una danza tantrica guidata dal vai e vieni regolare dello spazzettone e dello straccio sul pavimento. Ci connettiamo al movimento delle maree, alla risacca sulla battigia, al respiro ominoso del pianeta. Vero?

Per questo, cari uomini e donne della mia famiglia, tenevate tanto a questi benedetti lavori! Scusatemi, non avevo capito. Non sospettavo l’estasi inebriante di questa pulizia derviscia. 

E quanto sto scoprendo di me!Ho messo a punto una tecnica infallibile per avere la meglio sulla trapunta alla francese – una vecchia conoscenza. I francesi mettono la loro trapunta in una specie di federa gigante, piuttosto larga, che la fa sembrare una grossa nuvola. Una manica a sbuffo di una Lady Di gigante nel suo vestito da sposa. Si dorme divinamente, niente trapuntella italiana della nonna, né copertaccia di lana grezza che pesa come una pietra tombale. Ma il problema è infilarla. Io entro tutta intera nella federona, brandendo le estremità della trapunta, che vado subito a piazzare sulle cuciture della federa come grosse orecchie di tigre. Le lascio li’, mi sottraggo delicatamente al tendone da circo, ed è fatta. Son soddisfazioni.

E poi, finite le noci di lavaggio totalmente naturali, gli intrugli igienizzanti di aceto e olio di ravintsara, il sapone fatto in casa con la cenere del forno a legna della pizzeria da Antoine a Vincennes,...Dopo anni di negazione, rimozione e programmi a 26 gradi, ora non mi fido più di chi fa fa il bucato a meno di 95°.

Certo, potrei usare parte del mio fu guardaroba invernale per affrancare la mia corrispondenza. Ma ho una bambina di due anni: i miei cachemirini si reincarneranno in deliziosi pigiamini natalizi. Insomma, non nego che ci siano sempre prove e insidie disseminate sul cammino di una vera donna di casa, ma io ormai ho intrapreso questo arduo cammino verso l’eccelso equilibrio, quello fra vestiti puliti e vestiti integri. Un giorno arrivero’. Non ho fretta.

Ogni tanto, in pieno infaccendamento, cose strane accadono: l’erculea energia iniziale sparisce di botto, ad aspirapolvere acceso, e mi ritrovo a desiderare che la spina cambi da sola di presa, o che l’aspirapolvere sia dotato di una funzione straccio e di un bollitore integrato, che insaponi anche l’acqua e intrida direttamente lo straccio alla sua estremità. Forme di pigrizia davvero geniale. Altre volte sperimento invece una immensa noia, che mi conduce a misteriosi attimi di assenza. Mi capita di lanciare gli accumuli di polvere per aria come bottiglie vuote, e di aspirarle al volo con il tubo dell’aspirapolvere, come se le centrassi con la colt. Mi sento Candeggity Jane. Calamity Germ.

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